Mezzogiorno, i bambini più grandi giocano a calcio in cortile. Visti da quassù fanno pensare a un formicaio disordinato su una distesa amaranto. Se ti sbucci le ginocchia, il sangue a terra non si vede perché sono dello stesso colore. Dicono che le suore giocavano a tennis qui prima che il santuario diventasse quello che è, o vuole sembrare di essere. Qualcuno risponde che è vietato immaginare le suore con la racchetta in mano.
In un angolo del cortile la bambina più piccola fa una faccia serafica, desidera apparire annoiata. Eppure sta sperimentando per la prima volta l’ansia degli impazienti.
Aspetta un segnale dal bambino più grande che ha conosciuto a scuola. Lui era stato cacciato fuori dall’aula per aver lanciato una palla di carta e porporina appiccicosa. Lei aveva chiesto per favore di andare in bagno e si era alzata dal banco soltanto dopo tre grazie pronunciati con voce sommessa. Entrambi erano in corridoio dove, senza rivolgersi parola, uno scambio di sguardi era bastato a capirsi. Era sembrato il baratto di due figurine della stessa collezione.
Adesso sogna un nuovo rapido esame o che le tiri una pallonata addosso, qualsiasi cosa pur di venire riconosciuta. Nella attesa si studia le unghie incrostate di smalto azzurro. Va dicendo in giro che ce l’ha dall’estate e nessuno ci crede. Si distrae troppo facilmente e finisce sempre nel suo mondo astratto, dicono tutti della bambina.
Siamo ad aprile, il mese dei ritiri per la prima comunione. Non avrebbe mai incontrato il bambino più grande se non fosse stato per i suoi genitori. Le hanno proposto di anticipare un anno il sacramento. La bambina non ha fatto una piega, pensava ai regali che avrebbe ricevuto e soprattutto al catechismo. Intuiva che portarlo a termine con quelli della quinta lo avrebbe reso una sede più interessante del previsto. Quelli della quarta la lasciavano indifferente, non si innescava alcuna tensione condividendo gli spazi angusti e bui della chiesa. Con i più grandi, invece la sua mente si ingigantiva facendo spazio a nuove consapevolezze. Prima fra tutte, la malizia.
Il mondo della bambina tutto era fuorché astratto. E presto lo avrebbe pensato anche il parroco.
«È giunto il momento della confessione.»
Di fronte ai bambini ha assunto le sembianze di un formichiere. I raggi luminosi attraverso le vetrate gotiche da cui lo osservo possono ingannare il mondo dei colori, ma non quello delle forme.
«Uno alla volta vi libererete dei peccati.»
Il pallone rimbalza.
Quasi nessuno sa cosa raccontare al confessore, soltanto la bambina ha preparato un discorso. Da sempre, il confessionale è l’unico arredo in chiesa capace di esercitare del fascino su di lei. Sembra un gioco in cui tu parli e l’altro ascolta fingendo di non sapere chi sei, aveva pensato una volta.
Oggi però la confessione si svolge alla luce del sole, sotto a un arco del cortile.
«La cerimonia della comunione è vicina. Preghi al mattino e alla sera?»
«Io prego le stagioni, come ho imparato dalla luna e i falò.»
«Cosa intendi dire?»
«La nonna mi legge i libri.»
«Qui dobbiamo leggerci dentro.»
Il formichiere sta per inghiottire la formica.
«Sono triste.»
«Chi è il colpevole?»
«Io, io. Ho avuto voglia di lanciare il pallone addosso al bambino che mi piace e poi di dirgli le parolacce.»
Gnam.
La bambina rimane fino al tramonto a saltare la corda. Non pensa più al bambino più grande perché non lo merita. Quando va via a piedi da sola, passo dopo passo sente il cranio compresso in un batuffolo di ovatta sporca.
Citofona ai genitori, sale le scale ed è già pronto a tavola. Nessuna domanda particolare alla bambina. Il ritiro, si sa, è una giornata in cui si salta scuola con la scusa della comunione.
Le cade il tovagliolo unto di olio sul parquet, si alza dalla sedia e non torna più per la cena. Va nella sua stanza, la finestra è aperta e ci vede il suo riflesso sopra. I vetri delle nostre case sanno offuscare forme e colori.
Quanto sono brutta e cattiva?
Indossa il pigiama in pile senza mutande. Si mette dentro al letto. Spegne la luce. Per un attimo, avverte le sensazioni della sua prima volta in campeggio. Della notte in cui, nonostante l’ululato dei lupi, è stata l’unica del gruppo ad addormentarsi. Lei dorme sempre, più profondamente quando c’è qualche problema.
Stanotte però è la prima volta che ha un problema. Lei e basta, senza condividerlo con nessuno.
Inizia lo sconforto, un tuffo nel vortice della ruminazione. Perché ha confidato al prete i suoi pensieri intimi? La domanda è ossessione pura, scotta e brucia lo spirito.
Fidandosi della confessione, la bambina ha dato accesso al mistero della sua mente. La sua parte più conflittuale appena appena sviluppata, che ieri pareva ancora in pace, ora entra in guerra.
Il peccato ha innescato un modo circolare di pensare, antitesi della riflessione.
Il peccato o il pensiero di un peccato?
La bambina non ha fatto male al bambino, né gli ha rivolto delle parolacce. Eppure è bastato pensarlo, forse addirittura dirlo al prete prima ancora di pensarlo, per sbagliare. Ha ottenuto il perdono del parroco, magari anche quello di dio. È il suo, da sé per sé, che manca all’appello. Pensare al male, dire male e fare male sono un groviglio inestricabile. Formano un unico concetto e le infliggono numerose punizioni. Prima fra tutte, il controllo integerrimo d’ogni futura immagine mentale. Basta libertà di pensiero. E basta anche col sonno, sia mai che si veda peccare di nuovo in un sogno. Trascorre la prima notte insonne della sua vita affinché possa stabilire che il bene vinca contro se stessa.
Il mattino seguente nessuno le ha ancora spiegato che un pensiero spiacevole non corrisponde a un’azione maligna. Il giorno, con tutti i giorni seguenti, si riveleranno una cerniera tra il giusto e lo sbagliato. Non la apre, ma così non sa più dire quale stagione c’è fuori. Altri dieci anni attenderà la notte, ultima colpa d’insonnia inconsapevole, prima di chiedere: «Quel parroco, cosa intendeva ricevere?»